Amando Brasini nasce a Roma il 21 settembre 1879. Particolarmente dotato nel disegno, inizialmente frequenta “di malavoglia”, come lui stesso racconterà, le lezioni all’Istituto di Belle Arti e poi, più assiduamente, i corsi al Museo Artistico Industriale, lavorando contemporaneamente come apprendista decoratore: “questo genere di lavoro che comportava in sé un certo numero di aiuti – scrive nel 1932 sulle colonne de “Il popolo d’Italia” – mi condusse ad interessarmi anche di costruzioni e di appalti e devo appunto a quella mia temporanea occupazione l’ingresso nel campo dell’edilizia”.
Fin dagli esordi come architetto rifugge lo schematismo accademico, ricorrendo nella decorazione all’inesauribile repertorio formale del barocco, trasformato in volontà plastica scenografica e magniloquente. “Per Brasini – scrive Paolo Orano nel volume L’Urbe Massima pubblicato nel 1917 – il Cinquecento è un ciclo chiuso: è sobrio, perfetto esatto e per questo non è più attingibile; ed è assurdo l’imitarlo. Invece il Seicento e in particolare il barocco [...] è in architettura il moderno, perché nasce nell’epoca della scienza e della coscienza, quando tutto è più interiore”.
Eccentrico e romantico, bizzarro ed eccessivo, Brasini architetto è squisitamente romano: “ammiravo Roma – scrive in Appunti autobiografici pubblicati dal figlio Luca nella monografia del 1979 – e compresi che solo Roma mi poteva esser maestra”. Tra i suoi primi incarichi, tra il 1909 e il 1910 realizza la recinzione e l’ingresso del Giardino Zoologico di Roma. Nel 1913 con Marcello Piacentini partecipa al concorso per la sistemazione del fronte settentrionale di piazza Navona: il grandioso progetto, vincitore ma mai realizzato, diede sicuramente grande notorietà al giovane Brasini. A questo seguirono il progetto per la spina di Borghi (1915) e quello per l’ampliamento di Roma lungo la via Flaminia (1916), episodi sottesi alla volontà di ingigantire la città barocca: “Quel che nella sistemazione dei Borghi è lo sviluppo felice del concetto berniniano e cioè la propagazione fino allo sbocco sul lungotevere del porticato insigne della piazza – scrive ancora Orano – nell'Urbe Massima è integrale creazione in cui il Brasini supera le visioni e i mezzi d’arte che egli tanto predilige e si afferma novatore”. Durante gli anni della prima guerra mondiale, d’istanza presso il Genio della Regia Marina in Puglia, a Taranto progetta il Monumento ai caduti dell’aria, il Monumento per l’aviatore Bernardi e realizza la Scuola dell’aviazione.
All’inizio degli anni Venti la storia professionale di Brasini inizia a consolidarsi. Nel suo grande e fastoso studio di via dei Prefetti elabora progetti su progetti, non solo per Roma. Per Tripoli, ad esempio, disegna il piano cittadino, realizza il lungomare Volpi, la sede della Cassa di risparmio, il Mausoleo ai caduti e progetta il Palazzo di giustizia (1921-1922). Nel 1927 progetta i Piani regolatori di Tirana e Durazzo e il palazzo presidenziale di Tirana. Intanto a Roma dal 1923 sono iniziati i lavori di costruzione della Basilica del Cuore Immacolato di Maria Santissima ai Parioli. Dal 1924 si occupa, tra l’altro, del restauro di Palazzo Venezia, del completamento del monumento a Vittorio Emanuele e della sistemazione del lato orientale del Campidoglio con il Museo del Risorgimento. Contemporaneamente segue la progettazione di Villa Manzoni (1923-1928) e Villa Aloisi (1925-1926) e nel 1925 viene completato il primo nucleo della sua villa sulla via Flaminia, ampliata poi nel 1933 a costituire il cosiddetto “Castellaccio”. Sempre nel 1925 è invitato a realizzare il padiglione italiano all’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes di Parigi, intervento verso il quale non vennero risparmiate aspre critiche: negli anni eroici del movimento moderno, accanto al padiglione dell’esprit nouveau di Le Corbusier e al padiglione sovietico di Konstantin Stepanovič Mel’nikov, quello dell’Italia era apparso a molti come precipitato da un tempo remoto.
Brasini è inventore di forme e disegnatore ossessivo, spesso anche su pezzi di carta di risulta. Nella sua vita ha immaginato archi trionfali fastosi, università, palazzi imponenti e piccole ville, arene, monumenti funebri e commemorativi, grandi e piccole chiese, nuovi cimiteri, terme colossali, ponti fluviali, ponti, un faro della cristianità, teatri, una gigantesca reggia, un monumento a Dante, un diorama al labirinto e mille altre cose ancora; ma ha costruito ben poco rispetto a quanto ha progettato. La sua vena spettacolare, il desiderio di stupire e coinvolgere l’osservatore, lo ha portato ad usare il proprio estro per inventare alcune scenografie cinematografiche, per i film “Teodora” (1922) e “Quo Vadis?” (1924) nonché per il “Britannicus” (1924, mai completato). Profondamente radicato nel passato, Brasini lavora nel cinema, arte nuova per eccellenza, comprendendone le straordinaria possibilità; nel cinema è possibile costruire una Roma imperiale fastosissima e superflua, è possibile immedesimarsi negli antichi, così lungamente vagheggiati dalla tradizione del classico. “Per un pezzo – scrive nel 1925 Margherita Sarfatti – sfogò di fatto questa esuberanza nelle fastose ricostruzioni in gesso, cannucce e prospettive dipinte degli scenari cinematografici, dove l’abbondanza è valutata più della misura [...] dove l’invenzione fantastica e la sapienza archeologica si danno mano sotto specie di opulenza”.
Roma è comunque sempre il cardine attorno a cui ruota il suo pensiero, la sua idea architettonica. Della storia dell’architettura Brasini si nutre, come cibo per la sua sensibilità visionaria. Tuttavia, la disinvoltura con la quale ha immaginato di agire sul tessuto urbano, tagliandolo e sventrandolo, lo aveva reso facile bersaglio della critica. Nel 1929 in occasione della nomina ad Accademico d’Italia, Gustavo Giovannoni, congratulandosi, gli scrisse: “ma, per carità, caro Brasini, trai dal tuo ingegno e dal tuo senso d’arte una Roma nuova ma non ci sfasciare la Roma vecchia!”. Due anni prima, infatti, in sintonia con le parole che Mussolini aveva pronunciato nel noto discorso del 31 dicembre 1925 – “Fra cinque anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente come lo fu nei tempi del primo impero e di Augusto” –, Brasini aveva elaborato il progetto per la sistemazione del Campo Marzio e una prima versione di Piano regolatore della città. La reazione di Mussolini alla presentazione dei progetti avrebbe gettato nel panico l’ambiente architettonico romano: “Ho letto le memorie del progetto Brasini – scrive Mussolini – concernente la sistemazione del centro di Roma. Esso è sulle mie direttive di massima enunciate alla fine del 1925 in Campidoglio: isolare i grandi monumenti antichi, aprire delle grandi strade e piazze, costruire edifici che rappresentino nella loro architettura il segno del tempo fascista. Do quindi la mia approvazione di principio al suddetto Piano Regolatore e desidero che le pratiche necessarie siano alacremente condotte”. Malgrado ciò, Brasini non poté illudersi a lungo di aver trovato in Mussolini l’uomo capace di riportare Roma ai fasti imperiali e il suo mecenate. I sindacati romani ingegneri, architetti e artisti inviarono immediatamente al capo del governo una petizione per la salvaguardia del tessuto storico di Roma, chiedendo che per la redazione del Piano venisse bandito un concorso nazionale. E lo stesso Mussolini fece marcia indietro: “A miglior tempo!”, annotò nel settembre 1928 in un appunto sulla copertina del fascicolo del Piano. Ma questo tempo “migliore” per Brasini non sarebbe mai arrivato.
Nel decennio che segue, sebbene caratterizzato da opere di rilievo – quali il completamento del Palazzo dell’Istituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro in via IV Novembre a Roma (1926-1933); il Complesso del Buon Pastore, inaugurato nel 1933; il Palazzo del Governo a Taranto e il Palazzo del Podestà a Foggia (1934); la Banca Nazionale del Lavoro a Napoli (1933-1938); il Palazzo dell’Istituto Forestale Alessandro Mussolini all’E42, ma mai ultimato – e dalla partecipazione a diverse giurie di concorso – tra cui quella per la Stazione di Firenze nel 1933, appoggiando il progetto di Giovanni Michelucci, e quella per il Palazzo Littorio in via dell’Impero dell’anno seguente – nonché alla Commissione per il Piano regolatore del 1931, in realtà matura una progressiva, quanto definitiva, emarginazione di Brasini dalla scena architettonica. Nei suoi Appunti autobiografici lo stesso imputa l’avvio di questa decadenza alla sua partecipazione al concorso per il Palazzo dei Soviet (1931), non gradita a Mussolini il quale, “venutone a conoscenza con ritardo – ricorda Brasini – reagì in modo piuttosto violento nei miei confronti, ponendomi così in disparte dalle grandi iniziative che a quel tempo si operavano in Italia”. Anche la storia del progetto per il ponte sul Tevere è sintomatica di questa emarginazione, nonché della lotta strenua di Brasini per riuscire a legare il suo nome ad una grande opera pubblica. “Purtroppo – dirà nel 1932 – io non posso menar vanto come il mio collega Piacentini, di aver costruito alcuna cosa per lo Stato: progetti ne ho fatti tanti, ma nessuno, sia per un motivo, che per un altro, ha avuto l’onore di essere attuato. Non so a che cosa attribuire questa mia cattiva stella […]”. L’idea del nuovo ponte, situato a monte di ponte Milvio, nasce nel 1930 per “ricordare e tramandare ai posteri l’epica giornata della marcia su Roma”. È un’opera pienamente politica attraverso la quale unire alla volontà commemorativa un compito urbanistico trionfale, ossia di rappresentare il primo ingresso a Roma da nord. Il ponte di Brasini doveva essere il più grande che Roma avesse mai avuto: un ponte romanissimo per “eternare l’epoca ed il segno dell’era fascista”. Ma le vicende progettuali, accompagnate da polemiche e discussioni, furono estremamente lunghe. La costruzione, iniziata nel 1939, venne interrotta allo scoppio della guerra. Le opere sarebbero riprese solo nel 1947, non senza una scia di violente critiche da parte di chi lo considerava una scomoda eredità del regime. I lavori si sarebbero conclusi soltanto nel 1951, con l’inaugurazione del ponte, al tempo chiamato “della Libertà”, oggi ponte Flaminio.
Nel 1940 l’Accademia di San Luca lo nominò Accademico di merito corrispondente e, nel 1942, Accademico effettivo. Epurato nel 1946 in seguito alla caduta del fascismo, nel 1948 sarà eletto nuovamente Accademico nazionale nella Classe degli Architetti.
Dopo la guerra l’attività professionale di Brasini proseguirà con un ritmo decisamente ridotto. Anche questo periodo è caratterizzato da monumentali opere disegnate e mai attuate, tra cui il progetto per il Tempio Votivo Universale Cattolico a Roma (1944-1946), per una chiesa o Faro della Cristianità a Saxa Rubra, Roma (1951-1954), per il Mausoleo di Evita Péron a Buenos Aires (1952-1953), per il Palazzo reale di Riyād in Arabia Saudita (1954), per il Santuario della Madonna delle Lacrime a Siracusa (1955) o per un colossale ponte sullo stretto di Messina (1956-1963).
Armando Brasini muore a Roma il 18 febbraio 1965.
Gian Paolo Consoli
Immagine:
Alessio Issupoff (Aleksej Vladimirovic Isupov), Ritratto di Armando Brasini, 1932, olio su tela. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, inv. 894 → vedi scheda opera